Figli delle stelle - Alan Sorrenti (1977)

Siamo davvero figli delle stelle? Una serissima ricerca scientifica pubblicata sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society suggerisce di sì. Un team di astrofisici coordinato dalla Northwestern University di Evanston (Illinois) ha concluso che quasi la metà del nostro corpo ha origine cosmica. La Via Lattea non è quel che sembra: metà della sua materia proviene da galassie lontane. Pulviscolo stellare originato da esplosioni di stelle vecchie riempie lo spazio dell'Universo. “In un certo senso, ciascuno di noi può considerarsi un viaggiatore spaziale o un migrante extragalattico in quella che pensiamo sia la ‘nostra’ galassia” dice Daniel Angles-Alcazar, capo del team.

Certo, non è quello che aveva in mente Alan Sorrenti quando, nel 1977, con “Figli delle stelle” conquistò per la prima volta la vetta delle classifiche dopo anni di carriera. Una carriera che merita qualche parola per capire la singolare parabola artistica di Sorrenti.

Il musicista napoletano iniziò nei primi anni '70 con una musica sperimentale e vicina al progressive rock, come dimostrano i suoi primi album usciti tra il 1972 e il 1974. Questi album erano caratterizzati da una ricerca sulla voce usata come strumento, con brani molto lontani dalla forma canzone e lunghi anche un’intera facciata di un LP. Dischi che non vendettero molto, ma che collocarono Sorrenti tra i musicisti più apprezzati dalle frange giovanili più politicizzate.

Nel 1974 arrivò il primo parziale “tradimento” della causa con una versione psichedelica del classico napoletano “Dicitencello vuje”, che fece capolino nelle classifiche e cominciò ad attirare critiche dai suoi fan tradizionali dei movimenti studenteschi. In quegli anni, vendere dischi era visto come un crimine. Al Festival della gioventù studentesca di Licola, nel 1975, l’esibizione di Sorrenti fu coperta dai fischi dei contestatori, costringendolo a lasciare il palco a causa di un fitto lancio di lattine.

Sorrenti capì che non era aria e si trasferì negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Los Angeles, dove realizzò un disco interlocutorio dalle atmosfere fusion, “Sienteme it's time to land”, con musicisti americani e cantato quasi totalmente in inglese. Fu a Los Angeles che Sorrenti entrò in contatto con la crème dei musicisti losangelini: il produttore e chitarrista Jay Graydon, il tastierista e arrangiatore David Foster e il bassista David Hungate.

“Con un contatto giusto arrivai a Los Angeles, lì c'era la crema della musica. Avevo tutto da imparare e spazi in cui farmi coinvolgere,” ha raccontato Alan Sorrenti. La chiave fu Jay Graydon, chitarrista e arrangiatore di “Figli delle stelle”, che stava lavorando negli stessi studi con Al Jarreau. Lì incontrai alcuni dei Toto e naturalmente David Foster, che ha poi suonato le tastiere su “Figli delle stelle” e nell'album. Insomma, la crema del LA sound, che poi influenzò tanta musica e ancora oggi si ascolta nell'R&B e nell'hip hop. Era questa l’orbita in cui mi trovavo all’epoca. Un’orbita funky-soul, non tanto disco come allora poteva essere Donna Summer”.

Sarà il clima perennemente estivo, saranno le palme di Santa Monica, sarà quella nuova musica che parte dal soul e dal funky per diventare – complici i Bee Gees de “La febbre del sabato sera” – la musica perfetta da ballare nelle discoteche di tutto il mondo, ma Alan Sorrenti decise di tagliare i ponti con il passato. Per completare la metamorfosi, abbandonò gli abiti da fricchettone, sostituendoli con eleganti completi bianchi, e fece un salto dal parrucchiere: via la folta barba e i capelli lunghi, per un taglio moderno e due baffetti sottili e curati, molto più glamour.

Un giorno, in studio, Sorrenti accennò un vocalizzo, che prontamente Graydon trasformò in un riff di chitarra, quello inconfondibile di “Figli delle stelle”. Sorrenti sviluppò il brano, per ora strumentale e col titolo provvisorio di “Heaven”, ma fu durante un viaggio in Italia che nacque il testo. “Una notte ero nella mia casa di campagna di Morlupo, alle porte di Roma, e avevo in sottofondo la base strumentale. Le parole sono arrivate da sole. Vidi questo cielo stellato incredibile e sentii subito un collegamento, una vibrazione. La canzone si è chiusa da sé, ebbi subito la sensazione che era arrivato qualcosa di speciale. Oggi che sono buddista da oltre trent'anni, la definirei ‘una parziale illuminazione".

La canzone fu registrata a Los Angeles, sotto la supervisione del produttore Phil Ramone, e pubblicata come singolo alla fine di novembre del 1977, incontrando immediatamente un grande successo. È una delle prime canzoni marcatamente disco cantate in italiano, e resterà nella Top Ten della classifica italiana per 16 settimane, conquistando la prima posizione il 29 aprile 1978 prima di essere scalzata da “Stayin' Alive” dei Bee Gees.

Ovviamente, per i vecchi fan del cantante, Sorrenti aveva venduto l'anima al diavolo, ma a tutta una generazione di giovani non importava: la canzone era irresistibile, con quel riff che ti si pianta in testa e non ti molla più, ed era perfetta per ballare. Nel tempo, la canzone è stata rivalutata anche da chi nel 1977 aveva storto la bocca e nel 2010 è diventata il titolo di un film di Lucio Pellegrini con Pierfrancesco Favino, Giuseppe Battiston e Fabio Volo.

In un'intervista rilasciata in occasione del 40° anniversario della prima pubblicazione, Alan Sorrenti si è sbilanciato sul significato della canzone: “Credo tocchi una corda invisibile in grado di farci sognare, di farci credere in obiettivi possibili, quella che ci dice che la vita è bella anche quando meno te lo aspetti, una corda vitale, forte, che ha attraversato tante generazioni, misticismo e materialismo. Ci dev'essere qualcosa di profondo, direi quasi spirituale. In fondo, contiene un messaggio che poi è stato chiarito e confermato anche scientificamente: noi umani conteniamo degli elementi che arrivano dalle stelle, deriviamo dalle stelle. E forse io, per il percorso che avevo fatto, ero nel momento e nel posto giusti per sentire questa vibrazione ed esprimerla”.

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